Massimo Viglietti

Ristorante Taki off
Via Marianna Dionigi, 54-62, 00193 Roma RM
Parlare di qualcuno che, negli ultimi 30 anni, ha segnato la cucina italiana è spaventoso. È spaventoso perché fa storia della cucina italiana da prima che io nascessi e sarebbe idiota se non ne fossi quanto meno intimorito. È spaventoso perché cercare di fare domande e trovare argomenti di cui parlare che non siano già stati discussi, ridiscussi e quasi stuprati raggiunge livello “Mission: Impossible”. Soprattutto vorrei cercare di non fare la figura dell’incapace.
Partiamo da: Massimo Viglietti spero voglia diventare mio amico. Lo spero davvero, con tutto il cuore. Lui dice che le critiche sono giuste quando sono portate da persone che cercano di capirti in quel momento per quello che stai facendo. Mi piacerebbe essere criticato da lui! Due ore quasi a parlare. Intensità allo stato puro. I silenzi miei erano dovuti alla mascella che mi cadeva. Cadeva da come mi rendessi conto passo passo che, questo uomo, possa e debba dire ancora tantissimo alla cultura della cucina italiana.
Da qualche anno si muove a Roma. In che ristorante è importante. O forse no. Perché il vero ristorante non è il Taki Labò, ma quell’Off che chisà quando potremo finalmente vedere compiuto. Ma torniamo su Roma. Perché nessuno di noi penserebbe alla Capitale d’italia come posto idilliaco dove muoversi per l’avanguardia. Milano capitale economica. Modena capitale dei motori. Senigallia capitale e basta. Ecco li mi verrebbe in mente di trovarlo. Eppure Roma lo ha accolto, rigenerato e oggi lo protegge. Forse unica capitale che ancora ti salva quando osi troppo facendoti cadere, schiacciadoti a terra e facendoti poi rimbalzare ancora più in alto come si fa con una molla. Roma capitale della propria cucina e che sembri parlare solo con sé stessa, è la casa perfetta di uno chef alla ricerca di nuove avventure culinarie.
Per chi un minimo lo conosce, lo ha visto su qualche foto di riviste o siti è quello che porta una cresta in testa e sembra uscito da un tempo ormai passato. Foto che cristallizzano l’immagine di un ribelle anarchico nell’immaginario del punk londinese degli anni ’70-‘80. Tiene tanto a quella cresta che ha pure le emoji personalizzate con la cresta. E sono “cazzutissime”.
Eppure, anarchia e punk non c’entrano niente con lui. Lui che è fatto di rigore e passione. Un ribelle che rompe le regole solo per scriverne di nuove. Non so cosa ne pensi Massimo, ma a me ricorda terribilmente il super uomo di Nietzsche.
Riprendendo dalla cresta. La cosa bella è che in tutto quello che ho letto negli anni, nessuno si è mai preoccupato di chiedergli cosa volesse dire. E a essere onesti anche io forse avrei evitato se non fosse uscita spontanea la storia. Io avrei evitato spaventato di toccare momenti intimi, altri spaventati che potesse distruggere l’immagine che stavano creando di lui. Come dice il Liga: “Abbiamo facce che non conosciamo, ce le mettete voi in faccia pian piano” “ognuno sceglie la sua verità”. Anzi già che ci siamo mettetela su e ascoltatela mentre leggete. Mi sembra la colonna perfetta per questa storia, magari a lui non piacerà – non sono entrato nella discussione Liga/Vasco mi è bastato riuscire a schivare Samp/Genoa (Massimo è un ligure DOC)– ma è perfetta per descrivere l’impressione che avete sempre avuto di uno chef profondo come il mare a cui appartiene.
La storia della cresta per altro include: un nipote troppo tifoso, una spiaggia, la Liguria d’estate, un datore di lavoro troppo ligure e lui che gli salva il posto di lavoro facendo una follia. Un colpo di testa, di un uomo che forse in quel momento sancisce l’idea che se non hai niente da perdere, nemmeno la faccia, è proprio quando guadagni qualcosa: la libertà. Quella cresta per me da oggi vuol dire essere libero di scegliere e mi viene voglia di farmela. Poi i miei pochi capelli in testa mi ricordano che si sentirebbero molto soli e non farebbero lo stesso effetto. Sono ancora troppo schiavo delle mie stesse impressioni, ma ci lavorerò su.
Viglietti è in primis artigiano della cucina, preoccupato solo di potersi donare ai suoi ospiti. Tele ambulanti e paganti, dove dipingere un caleidoscopio di emozioni che si sentano più colorati dopo essere stati a cena con lui.
Uno chef caffettiera – suo feticcio – che sobbolle, distilla e si versa sotto forma di concentrato dentro una tazza da cui bere. Artigiano perché deve toccare ogni piccolo pezzo di cucina che ti offre, che deve sentire ogni piccolo passaggio della esperienza che ti sta offrendo.
Dimenticate le tavolate, i mille tavolini e i camerieri. Lui vuole essere con te, con ogni singola persona che gli si siede davanti per raccontarsi vis a vis. Per donarsi ogni sera in un gesto eucaristico attraverso un raviolo al foie gras o un consommé. Forse se potesse nutrire una persona alla volta imboccandolo, quello sarebbe il momento perfetto per capire quest’uomo, che usa la musica per isolarti in un rapporto unidirezionale con lui.
Ecco, se siete persone che hanno poco da dire, volete fare un’ottima impressione a una persona con cui vorreste finire a letto, sarebbe un’ottima idea prenotare da lui. Al discorso ci penserà lui, a voi lascia il dopo cena. Non rovinatelo.
Ci sono mille cose che andrebbero raccontate, del nuovo menù – è “figaggine” allo stato puro – , della sua visione futuristica dei piatti, di come il dolce sia un gusto e non un piatto, ecc ecc. Ma ci vorrebbero libri interi e io ho solo nove minuti del vostro tempo.
Ma chi lo sa che non stia già scrivendo per i fatti suoi.
Mi sono lasciato alle spalle qualche giorno prima di scrivere. Scelta fatta per distillare le impressioni e le emozioni e, alla fine di questo processo, ho riletto le quattro pagine di appunti che ho preso. Ho ritrovato un’infinità di idee e frasi che andrebbero incise nel marmo e appese in tutte le cucine – e negozi di artigiani – in memento memoriae. Il paragone con Corto Maltese lo accompagna ormai da anni. Ma una sola è quella che voglio lasciarvi parafrasandola: Noi siamo artigiani che si donano a gli ospiti, costruiamo barchette di carta che lasciamo su un laghetto a galleggiare. Ci sediamo poi soddisfatti a guardarle navigare felici di aver lasciato andare una parte di noi perché altre persone possano goderne.
Quindi in barca marinai, il comandante ci deve lanciare a navigare in nuovi laghi.
Articolo di Guglielmo Arnulfo (www.moderngastronomy.it)
Ho collaborato con Massimo in alcune occasioni e ci tengo ad aggiungere due ricordi personali..
Devo a Massimo chi sono oggi, tanto tempo fa con mia moglie sono andato nel suo ristorante ad Alassio, il mitico “Palma” il suo Palma quello con una stella Michelin che ne meritava due. Entrando lui era li ad accoglierti e ti seguiva per tutta la cena, come racconta Guglielmo. Sembrava volesse sedersi al tavolo con te, lo vedevi illuminarsi quando ti raccontava i piatti. Era il primo stellato in cui ho mangiato e lo ricordo come fosse ieri.
Non ricordo come, forse per caso sono entrato in possesso del suo cellulare e lui del mio. Lui è andato a Roma, io da Blumenthal per imparare. Un giorno mi chiama, era convinto fossi un suo fornitore di vino. Colgo la palla al balzo e gli chiedo se posso andare un po’ a Roma da lui. Accetta.
Giornate divertentissime, lavoro, ricordi sulla nostra Alassio, critici che arrivavano e lui che si impegnava al “massimo”, ma non ne aveva bisogno. Sapeva esattamente cosa fare, quando e come. Scherzava coi colleghi e li rispettava molto. Un giorno sono tornato li, a Roma a mangiare da lui, un’altra esperienza unica. Come dice l’amico Guglielmo ci sarebbe da scriverne un libro.
Massimo mi ha voluto anche al suo fianco in altre occasioni e sono state esperienze di lavoro ma anche di crescita, è sempre pronto per un consiglio, credo che in fondo mi voglia bene e credo che fondamentalmente Alassio e la sua Liguria non l’abbiano mai compreso a fondo. E so che darà ancora tanto alla cucina.